giovedì 13 agosto 2020

PONTELANDOLFO E CASALDUNI

   Pontelandolfo e Casalduni sono due paesi del Matese e distano quasi 5 chilometri l'uno dall'altro. Nel 1861 il primo aveva 5 mila abitanti ed il secondo 3 mila; furono accomunati da un atroce destino. 

Nell'agosto di quell’anno infausto per il Sud, furono messi a ferro e fuoco dalle truppe piemontesi del generale Cialdini, e centinaia di cittadini furono trucidati nel sonno da due compagnie di bersaglieri che non combattevano contro soldati ma contro donne, bambini, vecchi ed infermi. Erano insomma dei criminali di guerra.

In tutta la storiografia del movimento postunitario vi sono lacune e vuoti spaventosi. Nell'archivio storico del comune di Gaeta mancano le pagine relative ai giorni dell'assedio, così come nelle varie documentazioni dei processi relativi a fatti che sconvolsero il Mezzogiorno nell'estate del 1861, troviamo solo episodi inerenti alle scorribande dei partigiani o azioni della truppa piemontese contro i “briganti”. Documentazione sul numero dei morti civili non ne abbiamo mai trovata.

Gli ufficiali piemontesi che parteciparono alla repressione del brigantaggio erano tutti, loro malgrado, criminali di guerra e, grazie alla loro megalomania, abbiamo appreso cose orrende. Eccidi raccontati come se si fosse trattato di azioni di guerra o di battaglie vinte contro un esercito ben armato. L'armata piemontese, e lo hanno dimostrato i fatti, era forte solo contro popolazioni inermi. Possiamo dire con forza che era un esercito di ladroni e di assassini avendo invaso un Regno senza dichiarazione di guerra, contro ogni norma del diritto internazionale allora vigente. Il Sud reagì dignitosamente alla invasione militare piemontese; la borghesia meridionale, assieme ai vertici militari e ai funzionari ministeriali più influenti fu comprata dalla massoneria, chi non tradì la patria e la religione furono i contadini che, male armati, male equipaggiati, tennero testa all'esercito piemontese per dieci anni. L'esercito sardo era armato da Londra e protetto dalla Francia. La casta militare piemontese reagì con ferocia inaudita al fatto che dei zappaterra potessero batterli ed infliggere loro perdite umane ingentissime con azioni di guerriglia ben studiate a tavolino e congegnate egregiamente dal punto di vista militare.

La reazione piemontese fu barbara. Il Sud doveva sottomettersi ai voleri massonici. Una lotta senza quartiere devastò le province meridionali, i morti furono centinaia di migliaia. Il generale Cialdini si comportò come una bestia feroce, famelica ed assetata di sangue, un vero vampiro, un tale criminale di guerra che Kappler e Reder, al confronto possono essere considerati dei dilettanti.

Cavour che aveva, a suo tempo, ordinato a Cialdini la distruzione di Gaeta, aveva chiesto all'’ammiraglio Persano di passare per le armi tutti i marinai napoletani che si rifiutavano di servire sotto la bandiera sabauda, e, siccome risultavano essere migliaia quelli che non vollero tradire il loro giuramento di fedeltà, dobbiamo pensare che le fucilazioni ordinate dal servo massone di Lord Palmerston, nonché primo ministro di Sua Maestà Vittorio Emanuele II, Camillo Cavour, furono migliaia:  "Le temps des grandes mesures est arrivé"(il tempo delle grandi misure è arrivato). Persano e Cialdini erano avvisati.

Il Sud era in fibrillazione sin dall’11 maggio del 1860, quando Garibaldi sbarcò a Marsala. Tumulti si susseguirono in tutti i paesi dove la fame e le ingiustizie dei governi prodittatoriali cominciavano a farsi sentire.

Nel dicembre del 1860 il Giornale di Gaeta, che riportava i proclami insurrezionali di Francesco II, stampato in migliaia di copie, veniva diffuso in tutto il Meridione. Già intorno al 20 settembre del 1860 vi fu una feroce ribellione contro governi prodittatoriali instaurati dalla feccia liberale: insorsero i contadini di Cantalupo, Macchiagodena, S. Pietro Avellana, Forlì del Sannio e Rionero del Sannio, Roccasicura, Cittanova e Castel di Sangro; i morti furono all'incirca 1.500. Tra il 19 e il 21 settembre i contadini assieme ai reparti borbonici sconfissero a Roccaromana e Caiazzo le truppe di Csudafy e Cattabeni e li rigettarono oltre il Volturno. I garibaldini, abituati a vincere senza combattere in quanto sempre a contatto di reparti borbonici comandati da ufficiali venduti e comprati, appena provarono a battersi contro il popolo del Sud, ossia contro i contadini, ebbero bastonate inimmaginabili e sarebbero stati sconfitti del tutto se il Piemonte, la Francia e l'Inghilterra non fossero intervenute in aiuto dell’avventuriero nizzardo, condannato nel 1836 per alto tradimento da un tribunale genovese. Si formarono ben presto compagnie sotto la direzione del ministro della polizia borbonica Ulloa, che aveva il compito di ripristinare ovunque il governo legittimista. Furono riconquistati verso la fine dell'ottobre del 1860 Pontecorvo, Sora, Teano, Venafro, Isernia e Piedimonte d'Alife. I borbonici batterono i cacciatori del Vesuvio, annientandoli a

Civitella Roveto e raggiungendo Avezzano. 

Cialdini non perse tempo. Appena giunto ad Isernia mandò un telegramma al governatore del Molise in cui diceva: “faccia pubblicare che fucilo tutti i paesani armati che piglio e dò quartiere solo alla truppa. Oggi ho già cominciato”. 

Il 12 ottobre del 1860 le truppe piemontesi varcarono il Tronto con intenzioni certamente non pacifiche. Quel giorno iniziò la conquista del Sud da parte dei piemontesi, che trovarono una marea di partigiani negli Abruzzi, nel Molise ed in Ciociaria. 

I Borbone avevano un solo torto, quello di essere cattolici e di rispettare, da soldati, i militari ed i garibaldini fatti prigionieri. I piemontesi non avevano pietà, fucilavano tutti in quanto, da morti di fame qual erano, non potevano permettersi il lusso di sostentarli. 

Il plebiscito fu una formula escogitata da Cavour per giustificare al mondo l'annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte e la conseguente invasione del suo esercito, ma il 21 ottobre si votò solo in qualche comune con le urne circondate da garibaldini e piemontesi. Insomma una vera barzelletta. 

In quel giorno i partigiani regi, sotto l'egida del Comitato Centrale Borbonico, assaltarono i seggi ed issarono la bandiera gigliata su quasi tutti i paesi del Sud: dagli Abruzzi alle Puglie, dalla Ciociaria alle Calabrie. Le popolazioni si erano rivoltate contro la barbarie piemontese portatrice solo di morte e di fame. 

Testo liberamente estrapolato da "I Savoia e i massacro del Sud", Antonio Ciano, pagg.85-86-87

domenica 26 luglio 2020

IL SISTEMA (gattopardesco) int 'o Paese d'o sole


Il sistema non è una nostra invenzione, ha radici più antiche: il Sud d’Italia è un posto bello e comodo nella stretta fascia di latitudine cui corrisponde la più ampia distesa di terre emerse del nostro pianeta. Il che comporta che qui ci siano le migliori condizioni per lo sviluppo della vita e delle specie vegetali e animali addomesticabili (Jared Diamond: Armi, acciaio e malattie). In più, nelle migliaia di chilometri di questa zona ottimale, le civiltà si sono mosse con il sole, da est a ovest. Vuol dire che, per quanto lungo e duraturo il percorso, alla fine non potevano che arrivare al Mediterraneo e oltre non andare, almeno sino alla scoperta dell’ America. Ma pure la civiltà megalitica, nella preistoria, costretta dalle conseguenze della fine della glaciazione di Würm, più di diecimila anni fa, migrò da nord-ovest verso sud-est, venendosi a estinguere in Mediterraneo (ultima risorgiva, in Salento). Questo mare, così, è una sorta di imbuto dorato, in cui tutto scivola, da ogni direzione. Chi ci sta non se ne vuole andare, chi non ci sta, vuole venirci: se vale per piante animali, figurarsi per gli uomini. E se le guerre si fanno per procurarsi quello che manca, ci sarà qualche ragione, ripeto, per cui i terroni non hanno mai invaso nessuno e sono stati invasi da tutti? Decine di dominazioni si sono stratificate nel Sud d’Italia. E, ogni volta, la struttura sociale e di potere preesistente ha dovuto adattarsi alla nuova o esserne travolta (siamo i più meticci d'Europa; siamo stati a tavola e a letto con chiunque; siamo parenti di tutti. Alcuni li abbiamo accolti, altri abbiamo dovuto accoglierli. Ma nessuno ci entrò in casa come i piemontesi e l’Italia che ne seguì, perché nessuno, fino ad allora, era riuscito a farci desiderare di andarcene, noi che eravamo lì da sempre).  Così, senza pretendere di fornire giustificazioni o di spiegare i saecula saeculorum, forse non è infondata l’idea che una certa attitudine a «cambiare perché nulla cambi» (e che si può tradurre con «si salvi chi può») si sia sedimentata, da queste parti, a causa della storia: naturalmente, nulla cambiò per il principe di Salina, il Gattopardo. Il Piemonte, più che uno Stato, era un esercito adatto a mantenere con durezza l'ordine pubblico; meno a combattere, tant'è che perdeva, sistematicamente, tutte le guerre. Ferocia e avidità ne erano tratti dominanti, visto il sangue versato. Il Regno di Sardegna, poi Italia, fu perennemente in guerra, sino alla cacciata dei Savoia, fra spedizione in Crimea, conquiste territoriali di “liberazione”, dove non c’era nessuno da liberare come nelle Due Sicilie, avventure coloniali, conflitti mondiali. E dopo le armi, la «più vorace fiscalità che mai sistema borghese abbia inventato» scrisse Friedrich Engels

Al nuovo potere che si andava imponendo, quello che veniva attaccato e demolito al Sud, doveva adattarsi per continuare a esistere. E chi lo fece, non fu meno feroce e avido.

Testo liberamente estrapolato da "CARNEFICI", Pino Aprile, pagg.134-135 ad eccezione del titolo.

sabato 25 luglio 2020

La donna come "cosa" e premio al vincitore, il furto della nostra dignità e la connivenza dei "galantuomini" con i "liberatori"


 L
e civiltà hanno compiuto grandi rivoluzioni, in tutto il mondo; i diritti vengono riconosciuti a tutti, almeno nominalmente (altra faccenda è che lo siano di fatto), indipendentemente da etnia, religione e sesso; ma quando si vuole disgregare un popolo, si ricorre sempre allo stesso sistema: si calpesta il suo diritto a decidere quando e con chi fare i figli, si «usano le sue donne», distruggendo (per il piacere e il piacere del potere) norme e liturgie su cui si formano i diritti e i doveri che governano lo scambio sessuale, e in base ai quali nascono figli, famiglie e società. Nel rispetto di quei codici, un maschio diventa uomo, conquistando l’accesso socialmente riconosciuto alla femmina; che, nel rispetto degli stessi codici, è riconosciuta donna e signora, padrona di disporre di se stessa, e non donna-cosa. Usarla, per «saziare la libidine ora di chi comanda, ora di chi esegue gli arresti», è negare a quella comunità i fondamenti per esistere come vuole e consentirle di poter ancora essere tale, dovendo invece sottostare a norme e voleri di altri, quindi in stato di subordinazione (era lo scopo degli stupri etnici nella guerra dei Balcani). Se il paragone vi pare esagerato, vi pregherei di riconsiderarlo, dopo aver immaginato che la stessa cosa accada ora alle vostre figlie, mamme, mogli e sorelle. E voi, ridotti all’impotenza, chiedendovi se lì si fermeranno o se, per cancellare le tracce, uccideranno tutto il resto della famiglia e, quando avranno finito, anche la violentata, come fecero i marines in Iraq. 

Eppure, furono i deputati meridionali, da Massari a Pica a Nisco e molti altri, appartenenti quasi esclusivamente alla classe di proprietari e arraffoni che si stava arricchendo con la nuova situazione, a proporre e far legalizzare i più feroci e infami metodi per sopprimere quella che avevano interesse a spacciare come ostilità al progetto unitario, ma che in gran parte era rivolta e vendetta per i furti impuniti. E se il governo di Torino era costretto a richiamare dal Sud i più sanguinari ufficiali, per le proteste del mondo civile, possidenti meridionali e intellettuali di complemento ne invocavano il ritorno. Un circolo vizioso assecondato dall’occupante che, così, si procurava l'appoggio politico forte e complice che ne giustificava presenza e azione. Il passaggio di potere e risorse consentiva alla classe dirigente che così andava formandosi in loco (subalterna e ricattabile, quindi: coloniale) di creare una base sempre più larga di clientele a cui distribuire le briciole del bottino e con cui consolidarsi e grazie a cui essere legittimate, sia pure a posteriori, spacciando l’altrui dipendenza per consenso.

Un meccanismo che resiste ancora oggi: i “clienti” e i partiti nord-centrici forniscono una caricatura di democrazia con un sistema di voto in larga parte controllato (spesso dalla mafia, come struttura di servizio); il dirigente locale così fatto votare, in realtà nominato, legittima con la sua presenza le discriminazioni a danno del Sud (le colpe «della classe dirigente locale»...) e salva con la sua complicità, la propria condizione privilegiata («Fummo noi, classe culta e benestante, che volemmo l’Italia una e via mandammo il Borbone», ricorda, uno dei più attivi e convinti unitaristi, il cosentino Vincenzo Padula, il 10 ottobre 1864, sul suo giornale «Il Bruzio», ai «culti e benestanti» che si lamentavano di come andavano le cose).


Testo tratto da "CARNEFICI" di Pino Aprile, pagg.133-134 - ad eccezione del titolo.

venerdì 24 luglio 2020

A proposito di Divise imbrattate di fango e, soprattutto, di sangue...


Democratici o ex democratici meridionali come il Tripodi si distinguevano nella repressione anticontadina in maniera così spietata da provocare l’indignazione di Giuseppe Ferrari» scrive Mauro Mercuri in L'anello di zinco, «per le 526 fucilazioni eseguite in soli sei giorni nell’agosto del ’61, in Abruzzo e Calabria», mentre le cifre ufficiali (giusto per aver un’idea della distanza fra quello che succedeva e quello che veniva riportato nei documenti), per l’intero secondo semestre del 1861, parlano di solo 733 fucilati, 1.093 uccisi: un dato «indubbiamente inferiore al vero», avverte il pur prudente Molfese, in Storia del brigantaggio dopo l'Unità, perché nelle decine di paesi «totalmente o parzialmente dati alle fiamme», alla fine del 1861, «le vittime della guerriglia e della repressione ammontavano a parecchie migliaia, ma nessuno era più in grado di contarle. Migliaia e migliaia erano i profughi». 

Persino Bixio, Garibaldi e altri parlamentari chiedevano più giustizia sociale per il Sud, e lo stesso generale La Marmora ammetteva che soldati e ufficiali piemontesi si rendevano colpevoli di gravi reati. Ma i responsabili di stupri e omicidi, ci sono documenti che lo dimostrano, venivano trasferiti e sottratti alla giustizia, e alle richieste dei magistrati, le autorità militari e governative replicavano di non essere più in grado di rintracciarli. In un caso, lo scandalo fu così grande, con denunce in Parlamento, che il responsabile, l’ufficiale e conte Bosco di Ruffina, venne deferito al Tribunale militare: a Somma Vesuviana, aveva fatto fucilare «sei persone, tra cui un sacerdote, tre possidenti e un commerciante, sotto l’accusa di essere fautori e manutengoli di briganti» scrive Francesco Barra in Il Brigantaggio in Campania. Fra le vittime, un ragazzino di 14 anni. Bosco, però, fu subito assolto. 

 Appena uno sguardo ai fascicoli delle sentenze della commissione d’inchiesta presso il Tribunale militare permanente di Napoli: «Non luogo a procedere contro Cesare Moretti di Voghera, sottotenente accusato di abuso di autorità per aver fatto fucilare...»; «Non luogo a procedere contro Felice Broglia di Voghera, accusato di abuso di autorità, per aver fatto fucilare...»; «Non luogo a procedere contro il capitano conte Branda Castiglione e il sergente Giuseppe Meschini, accusati di aver fucilato...»; «Non luogo a procedere contro Carlo Romagnoli di Pistoia, capitano dei bersaglieri accusato di furto e nefandezze varie...»; «Non luogo a procedere contro Matteo Aiuto di Palermo, accusato di aver ucciso a fucilate...»; «Non luogo a procedere contro Giuseppe Alessandro Tresoldi, luogotenente, Filippo Pehlinur e Luigi Martinelli, capitani, accusati di abuso di potere»; «Non luogo a procedere contro un drappello di sei carabinieri»; «Non luogo a procedere contro Girolamo Colli, Giacinto Ventura, Alfonso Suppini, Paolo Galiani, Giuseppe Bologna...». La certezza del diritto non si sa, ma la certezza del torto per il vinto e il morto era garantita.

 Vincenzo Padula, prete, poeta, antiborbonico e liberale, in Antonello capobrigante calabrese, scrisse: «Il Brigantaggio è un gran male ma male più grande è la sua repressione. Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l’immoralità dei mezzi, onde quella caccia deve governarsi per necessità, ha corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, e anche i più lontani congiunti, e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine ora di chi comanda, ora di chi esegue gli arresti. E delle violenze non parlo» (e se non erano queste, quali?). Più o meno come “le donne di conforto” coreane rastrellate dai giapponesi, quando invasero quel Paese. E questo, in una società in cui poteva bastare uno sguardo mal inteso a una donna, perché il coltello riportasse ordine e senso dell’onore («più di 300 giovanette popolavano ormai i postriboli perché cacciate» dall’Albergo dei poveri di Napoli, scriveva «Il Popolo d’Italia», nel 1862. Arrivati i civilizzatori «era stata rubata la metà della rendita», riducendo quel meraviglioso istituto benefico in un «miserevole stato». Non solo: «Per ordine del governo le più avvenenti giovanette alunne del Real Albergo dei poveri furono condannate a esibire il proprio ritratto in fotografia con la macchina appositamente introdotta in quell'ospizio col doversi poi spedire quei "ritratti" a Torino, non Arcore. 

Testo liberamente tratto da "Carnefici" di Pino Aprile, pagg. 131-132

«Festa, farina e forca»


La Festa del Carmine

Per dileggiarlo, il Regno delle Due Sicilie, fu ridotto alla sintesi «Festa, farina e forca», attribuita ai Borbone, come formula di buon governo del popolo (quella di Vittorio Emanuele II, vi ricordo, era «baionette e corruzione». Mi sa che preferisco il metodo di Ferdinando). Vera o no l’attribuzione, ci sono alcune certezze: quando ci fu la terribile carestia del 1853, il Borbone vietò l'esportazione di grano e ne importò, per calmierare il prezzo e non far patire la fame alla sua gente; Cavour e la sua famiglia specularono sulla scarsità di cibo, tanto che la popolazione inferocita assaltò la sua casa e intervennero i militari, sparando sulla folla; sulla propensione alla festa, i napoletani non hanno bisogno di incoraggiamento; la forca, invece, era assente, perché da decenni (a parte l'esecuzione dell’attentatore alla vita di re Ferdinando, Agesilao Milano), la pena di morte era stata abolita di fatto, nel Regno delle Due Sicilie, mentre furoreggiava a Torino.
Con l’arrivo dei piemontesi, la farina sparì e si ebbe tale miseria che i meridionali, per la prima volta nella loro storia, emigrarono; e non ci furono più molte ragioni di far festa, perché l’uso forsennato della forca portò alla netta prevalenza dei funerali: il Regno di Sardegna già vantava, in Europa, la maggiore percentuale di esecuzioni capitali, in rapporto alla popolazione. Un talento che ebbe un clamoroso sviluppo quando venne fraternamente esportato al sud.
-------------------
Testo liberamente tratto da "Carnefici", di Pino Aprile, pag. 125

sabato 18 luglio 2020

LE NOSTRE PRIGIONI


 (libere estrapolazioni tratte da:

" E chi non vuole la nostra libertà, in Galera), capitolo quinto de i "CARNEFICI", di Pino Aprile.

------------------------------------------------------------------------------


La storia sembra una sequenza di fatti, ma è un confronto fra narrazioni di fatti: quali e come. Quante persone vennero incarcerate dai piemontesi, al Sud? Quali erano le condizioni della loro detenzione? Quanto tempo restavano in galera? Per quali reati? Quanti morirono per maltrattamenti ed epidemie? Quanti di loro avevano almeno una condanna, purchessia, o solo un’idea della ragione per la quale erano stati imprigionati? Tutte domande senza risposta definitiva: in un secolo e mezzo, nessuno si è preso la briga di fare tali ricerche, in modo sistematico, esaustivo (salvo lodevolissime indagini condotte perlopiù da studiosi locali); soltanto, fra atti parlamentari, rapporti prefettizi o militari, censimenti occasionali o studi che miravano ad altro (come, nel 1866, Prigioni e prigionieri nel Regno d’Italia, del parlamentare Federico Bellazzi), affiorano dettagli spaventosi di un tutto ignoto: nella sola Agrigento (denunciò Crispi), in un mese, trentaduemila detenuti (ben più di metà dell’intera popolazione carceraria annua d’Italia, oggi); grotte, cripte e cimiteri usati come prigioni, non essendoci più altri luoghi in cui stipare le vittime di rastrellamenti. Strana libertà fu portata in nome dell’Italia unita: non bastarono le carceri a contenere le orde di liberati. A volerla buttare in macchietta, la cosa si presentava così: «Siamo venuti a liberarvi».

«Questa vostra libertà non mi piace.» «Allora ti mettiamo in galera»: in tante città del Sud persero pure la libertà di uscire di casa e non solo in quelle messe sotto assedio in Sicilia; nella Capitanata, per esempio, «in ogni città e villaggio, dalle 11 della sera alle 14 del mattino [quindi per ben quindici ore al giorno N.d.A.] è vietato percorrere vie o strade senza un permesso speciale dell’autorità militare». In Contro Garibaldi, Gennaro De Crescenzo ricorda che appena cinque giorni dopo l’ingresso del nizzardo nella capitale, «si poteva registrare una grave sommossa anti-unitaria nei pressi di Napoli, a Sant'Antimo: furono arrestate 138 persone per “attentati aventi per oggetto di cambiare il Governo”» (già. in Sicilia, sbarcato di fresco, Garibaldi emanava decreti di ogni genere «in virtù dei poteri conferiti» a lui: da chi? Ed esordiva scrivendo di essere stato «liberamente eletto Dittatore»: da chi, quando?). Se la cosa non fosse terribilmente seria, sarebbe una barzelletta, «se si pensa alla legittimità degli atti in questione», annota De Crescenzo. E già, perché venivano condannati come sovversivi funzionari, guardie e “rivoltosi”, i cittadini di «un governo legittimo ancora in piena attività»; e a farlo era un governo autoproclamatosi tale e «inventato da appena cinque giorni», dopo un’invasione armata.

Degli archivi di Stato di Napoli, si apprende cosa succede con l’arrivo di Garibaldi: nelle carceri della città, nei sette anni precedenti, non c'erano mai stati più di 1.560 detenuti; il 30 settembre 1860, tre settimane dopo la “liberazione”, sono già saliti a 18.472; dodici volte tanto. E di sicuro, in tre settimane, non moltiplicarono per dodici le celle in cui stiparli. Quindi, dove ce ne stava uno, se ne ammassarono (in media) una dozzina. Non fu che l’inizio. I reclusi, sotto la tirannia dei Borbone, potevano vedere i parenti anche due volte al giorno, poi furono finalmente liberi di incontrarli tre volte a settimana (non sempre, non ovunque). I dati sono ballerini e non c'è modo di sapere, con accettabile approssimazione, quanti fossero i detenuti. Forse era una missione impossibile, se si considera che quasi chiunque, purché n nome dei Savoia, dell'Unità, del tricolore, insomma contro i Borbone e lo Stato da abbattere, poteva incarcerare chiunque. Era cominciato un periodo di terrore e arbitrio che durerà molti anni.

Su «Il Bruzio», Vincenzo Padula, liberale calabrese, unitarista e filopiemontese, scriveva. «Le prigioni di Cosenza bastano appena a 500 prigionieri, e nondimeno al momento ne contengono 897. Manca a quegl’infelici l’aria da respirare, il luogo da muoversi, sono legati come a mazzi, come i dannati dell’inferno, gli uni agli altri sovrimposti come fasci di fieno», e che «il numero dei prigionieri invece di scemare monti ogni giorno», anche se siamo ormai nel 1864. «È un male che non si deplora nella sola Cosenza, ma in tutte le provincie, Salerno grida, Foggia ha cessato di gridare. Il tifo carcerario ha colpito spaventevolmente questa città.» Ed è «onesto che 452 infelici gridino da quattro anni, e inutilmente ogni giorno: Fateci giustizia?», perché vi sono «parecchi detenuti che non appartengono a nessuna autorità! Non al Prefetto, non al Generale, non al procuratore Regio: nessuno di costoro ne ha ordinato l’arresto, nessuno di costoro sa che quell’arresto sia stato eseguito». Cosenza aveva allora poco più di sedicimila abitanti; quasi cinquecento erano in carcere senza accusa, senza processo, da anni, e senza che nemmeno si sapesse chi ce li avesse messi e perché. La libertà che era stata portata era tale, che i fortunati finivano in galera “appartenendo” a qualche autorità, gli sfigati non sapendo a chi “appartenevano”. Di sicuro, non a se stessi. Così, «un tesoro di odio contro gli uomini, di vendetta contro la società. Di disprezzo verso la legge gli si accumula lentamente nel cuore». Un'idea della facilità con cui si finiva in prigione (un poveraccio che aveva regalato una giacca a un giovane che in seguito si diede alla macchia, fu incarcerato per complicità, riporta Mauro Mercuri in L'anello di zinco; quindi, se prestate una cravatta a un tizio che l’anno dopo uccide la moglie, finite in galera pure voi) e anche un’idea della quantità di reclusi, delle condizioni in cui erano detenuti, è possibile farsela grazie a Edoardo Spagnuolo, inesausto cacciatore di documenti su quel che accadde in Irpinia, all’arrivo dei liberatori con il tricolore. Aggiunge interesse il fatto che il suo studio riguarda un carcere-simbolo nella storia pre-risorgimentale (quella post-risorgimentale, invece, hanno evitato di dircela e Spagnuolo dimostra che i veri orrori furono dopo, non prima). Montefusco è un borgo nell’Avellinese, alto su un colle, da cui si domina un panorama sterminato, dalla Campania alla Puglia, dalla Lucania al Molise. Nel suo carcere vennero rinchiusi dai Borbone una cinquantina di detenuti politici, rei di aver tentato di abbattere la dinastia. Nel 1859 la pena fu commutata in esilio; alcuni di quei fuorusciti, da Torino, aiutarono a organizzare l'invasione sabauda.

Fra loro, nomi pesanti: il barone Carlo Poerio, che era stato scelto per essere trasformato in poeta-martire della repressione borbonica, «a quindici centesimi la linea», rivelò uno dei costruttori del mito, il formidabile giornalista lucano Ferdinando Petruccelli della Gattina (il guaio non previsto fu che Poerio finì per prendersi sul serio: «Si crede Poerio» scrisse Petruccelli, che aveva una penna al vetriolo);

*Grazie alle Memorie di Castromediano, Edoardo Spagnuolo ha potuto fare il raffronto fra cos'era il carcere di Montefusco sotto i Borbone e cosa divenne sotto i Savoia.

Un lavoro certosino, ammirevole, che ristabilisce il vero, circa il trattamento del prigioniero, nel Regno delle Due Sicilie (pur tenendo conto che quelli di Montefusco erano detenuti “speciali”), opposto alla ferocia e alla barbarie con cui, in nome della liberazione non si sa da cosa e da chi, si fece scempio di un’intera popolazione, privandola di ogni diritto, a partire dal diritto di unirsi, in condizioni di parità, agli altri italiani.

giovedì 16 luglio 2020

Le narrazioni politicamente corrette ed interessate

 

Un ricercatore della rivista (ora non più edita) «Due Sicilie», Umberto Pontone, scovò documenti interessanti nell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea: Bettino Ricasoli, capo del governo, nell'ottobre del 1861 scriveva al generale Enrico Cialdini, per disgrazia del Sud, luogotenente a Napoli, di «parecchie casse contenenti carte diplomatiche importantissime», trovate a Gaeta, dopo la resa. E gli chiedeva che fossero «diligentemente suggellate e spedite a Torino», perché se ne facesse «un esame accurato». Per farne cosa? Lo si capisce meglio da un altro messaggio (28 ottobre) al successore di Cialdini, La Marmora, circa «carte di somma rilevanza politica» dell’ex ministero napoletano degli Esteri. «La consegna di queste all'Archivio generale potrebbe essere sommamente pericolosa», perché qualcuno potrebbe consultarle, mentre «il Governo del re il cui desiderio è di chiudere l’epoca delle dissensioni italiane, non può permettere che si getti un continuo pascolo alle recriminazioni retrospettive, mediante una pubblicità di cui egli solo può determinare l’opportunità e le forme.» In Indietro Savoia!, Lorenzo Del Boca ricostruisce le peregrinazioni, dal 1866 al 1913, di settantatré fascicoli sulle operazioni contro il Brigantaggio, che vengono spostati da Napoli, a Firenze, poi a Roma, dove sono finalmente catalogati, ma... «molti documenti furono distrutti nel “forno delle carte”».
Okay, okay, la faccio finita; vedo faccette annoiate... Però sono rimaste in sospeso un paio di cose: dai sabaudisti a oggi, molti fatti nuovi sono successi, il monopolio scricchiola, tanti storici, perlopiù giovani, specie ultimamente, e favoriti dalla quantità e dalla potenza dei moderni mezzi di comunicazione e ricerca, scorrono gli eventi del passato con occhi diversi. Ma l’onda dei sabaudisti resta alta. La spiegazione che ho riportato poco prima, del perché la storia vada manipolata a fin di bene, non è di un sabaudista dell’Ottocento, ma del professor Alessandro Barbero, anno 2013, in una sua intervista a «Storia in rete» (ma ci pensate che ai suoi studenti, durante le sue lezioni, o ai lettori dei suoi libri, tocca chiedersi, con gratitudine: «Cosa ci starà pilotando il prof, della verità, per fare di noi dei buoni italiani?».
Con Barbero ebbi un pubblico e civile confronto; poi volli avviare con lui una lunga, quasi estenuante per entrambi, conversazione per posta elettronica. Ognuno dei due si convinse che l’altro sbaglia, ma non è un disonesto, pur disapprovando argomenti e metodi; e che, comunque, era inutile continuare a opporsi le rispettive ragioni, perché non sarebbe servito a nulla. Tant'è che, dal momento che questi dialoghi avvenivano di notte, a un certo punto ci dicemmo: ma se ce ne andassimo a dormire?). La sua frase, che ho riportato prima senza dirvi di chi era, completa, suona così: «Le grandi narrazioni, ovvero la costruzione di racconti attorno a cui si rinsalda l’unità nazionale, sono tipiche dello Stato nazionale. Per noi lo sono stati Garibaldi e i Mille. Più o meno ogni Paese l’ha fatto: ha preso alcuni avvenimenti e ha deciso che erano fondanti. E poi nel raccontarlo nei libri di testo ha semplificato molto e ha scelto cosa mettere in evidenza.

Questo modo di raccontare la storia al popolo indiscutibilmente si è sempre adoperato. Ma erano tendenzialmente operazioni pilotate dagli storici stessi, che ritenevano di servire il Paese offrendo una narrazione della storia intorno alla quale raccogliersi tutti quanti. Erano narrazioni non divisive ma che cercavano di costruire un’identità comune».
Ma, per unire «nella memoria» (ir. una nuova di zecca, funzionale a un progetto politico altrui) al Sud si rende necessaria la cancellazione della memoria di sette secoli di una comunità, in molte cose estranea a quella che viene imposta.
Per questo non bisognava far sapere che i protagonisti della «storia intorno alla quale raccogliersi tutti quanti», raccontavano così la fraterna acquisizione del Sud: «non era possibile governare, se non incutendo terrore», secondo il generale Enrico Della Rocca, in Autobiografia di un veterano; e lui faceva fucilare, tanto, ma così tanto, che parve troppo persino ai suoi capi. Il terrorista in divisa cercò di aggirare l’ordine, ma alla fine fu costretto «a sospendere le fucilazioni e a trattenere prigionieri tutti gli arrestati. Le prigioni e le caserme rigurgitarono, il numero dei carcerati crebbe a dismisura».

Narrazioni di prima mano, ma divisive; quindi meglio non farle arrivare nei libri di storia, dove restano preferibili quelle un tantino sottrattive. Quindi, qual è l’operazione che dai primi sabaudisti a oggi si è compiuta e si compie?
Ridurre la nostra storia al raccontino del percorso di un popolo sparso che si riconosce in una dinastia, la cui missione è riunificare (e sul come, non solo nascosero stragi che manco i nazisti, ma per i tre anni peggiori, 1861-63, in cui scorse più sangue, forse, che in tutti gli altri messi insieme, arrivarono a far sparire pure le statistiche sulle esecuzioni capitali). Tutto quello che entra in questa griglia è accettabile, discutibile, argomento di rielaborazione da parte dei professionisti; è falso tutto quello che smentisce o non si adatta a tale griglia (si chiamano “frames”, cornici mentali).
«La storiografia italiana post-unitaria ha alterato la verità storica e ne è venuta fuori una storia assurda e irreale il cui unico attore è una sparuta, avida, egoista e servile classe dirigente» accusò Tommaso Pedìo, con Franco Molfese, il maggiore storico del Brigantaggio nel periodo risorgimentale, in Economia e società meridionale a metà dell’Ottocento.
Una costruzione facilitata dal fatto che il mondo procedeva a tappe forzate verso un tempo in cui il presente non sarebbe più stato il ponte fra passato e futuro, ma l’anello spezzato che interrompe il collegamento di causa ed effetto fra questo e quello. Una cosa ripetuta molte volte, diventa vera; il contrario disorienta, genera insicurezza e sospetto. Mettiamola così: se abbiamo potuto reggere alle cure di certi educatori, forse non ci avrebbe ucciso nemmeno sapere come stanno davvero le cose, pur nei limiti dell’umana, possibile approssimazione, perché non c’è dubbio che la verità non è mai raggiungibile del tutto e per sempre, ma nemmeno la menzogna resiste per sempre. Mi pare enorme, a questo punto, il vantaggio di avere non dico storici, ma pur solo divulgatori non professionisti che non sono obbligati a “cambiare” storie e personaggi, decidere quali avvenimenti siano “fondanti” e altri “divisivi” e, quindi, da scartare, né a dirigere “operazioni pilotate” per “raccontare la storia al popolo”, che appare come una sorta di gregge a cui il savio pastore debba selezionare cosa deve e cosa non deve sapere.-
Per il suo bene, chiaro.
Be’, c'è un altro modo: scommettendo sul fatto che il popolo sia molto più saggio e maturo, gli si dice tutto quel che si riesce a sapere. Nelle pagine che seguono, troverete una lunga lista di cose brutte che non vengono raccontate nei libri di storia. Ma che sono successe. Perché? Per recuperare, attraverso «il potere eversivo della verità ricordata» (La fabbrica del falso, Vladimiro Giacché), quella che Eduardo Galeano, a proposito delle vittime della dittatura in Uruguay, definisce: «La dignità della memoria, memoria della dignità». E chiedersi se tutto questo sia estraneo al fatto che oggi la percentuale delle importazioni del Sud dal Nord Italia sia otto volte maggiore (ma in alcuni periodi dello scorso secolo e mezzo è stata pure più alta) a quella di prima dell’Unità e che mentre prima dell’Unità 1’85 per cento delle esportazioni del Regno delle Due Sicilie era con gli Stati del Nord Europa e l'America, oggi il Sud non esiste, di fatto, più, in questo campo, né in molti altri.
Nel 1860, i dati su aziende industriali e numero di addetti «erano migliori al Sud che in qualsiasi altra parte della penisola», scrive John Anthony Davis, in Napoli e Napoleone.
L'Italia meridionale e le rivoluzioni italiane (1780-1860), citando l’ottimo studio, pochissimo pubblicizzato e presto scomparso dalle librerie, di Luigi De Rosa, La provincia subordinata. Ma quando il Regno delle Due Sicilie «cessò di esistere, il mito di un Sud immobile e immutabile tornò utile per giustificare l'inadeguatezza di una medicina che era stata già provata e che aveva già dimostrato le sue mancanze». 
Quel mito è comodo ancora oggi.  Ma funziona sempre meno, perché, sabaudisti o no, quando una cosa, nessuno te la vuole dire, la terra si crepa, si apre. E parla.

Testo liberamente estrapolato da, Carnefici, Pino Aprile, pagg. 71-72-73-74-75.