venerdì 24 luglio 2020

«Festa, farina e forca»


La Festa del Carmine

Per dileggiarlo, il Regno delle Due Sicilie, fu ridotto alla sintesi «Festa, farina e forca», attribuita ai Borbone, come formula di buon governo del popolo (quella di Vittorio Emanuele II, vi ricordo, era «baionette e corruzione». Mi sa che preferisco il metodo di Ferdinando). Vera o no l’attribuzione, ci sono alcune certezze: quando ci fu la terribile carestia del 1853, il Borbone vietò l'esportazione di grano e ne importò, per calmierare il prezzo e non far patire la fame alla sua gente; Cavour e la sua famiglia specularono sulla scarsità di cibo, tanto che la popolazione inferocita assaltò la sua casa e intervennero i militari, sparando sulla folla; sulla propensione alla festa, i napoletani non hanno bisogno di incoraggiamento; la forca, invece, era assente, perché da decenni (a parte l'esecuzione dell’attentatore alla vita di re Ferdinando, Agesilao Milano), la pena di morte era stata abolita di fatto, nel Regno delle Due Sicilie, mentre furoreggiava a Torino.
Con l’arrivo dei piemontesi, la farina sparì e si ebbe tale miseria che i meridionali, per la prima volta nella loro storia, emigrarono; e non ci furono più molte ragioni di far festa, perché l’uso forsennato della forca portò alla netta prevalenza dei funerali: il Regno di Sardegna già vantava, in Europa, la maggiore percentuale di esecuzioni capitali, in rapporto alla popolazione. Un talento che ebbe un clamoroso sviluppo quando venne fraternamente esportato al sud.
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Testo liberamente tratto da "Carnefici", di Pino Aprile, pag. 125

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