Persino Bixio, Garibaldi e altri parlamentari chiedevano più giustizia sociale per il Sud, e lo stesso generale La Marmora ammetteva che soldati e ufficiali piemontesi si rendevano colpevoli di gravi reati. Ma i responsabili di stupri e omicidi, ci sono documenti che lo dimostrano, venivano trasferiti e sottratti alla giustizia, e alle richieste dei magistrati, le autorità militari e governative replicavano di non essere più in grado di rintracciarli. In un caso, lo scandalo fu così grande, con denunce in Parlamento, che il responsabile, l’ufficiale e conte Bosco di Ruffina, venne deferito al Tribunale militare: a Somma Vesuviana, aveva fatto fucilare «sei persone, tra cui un sacerdote, tre possidenti e un commerciante, sotto l’accusa di essere fautori e manutengoli di briganti» scrive Francesco Barra in Il Brigantaggio in Campania. Fra le vittime, un ragazzino di 14 anni. Bosco, però, fu subito assolto.
Appena uno sguardo ai fascicoli delle sentenze della commissione d’inchiesta presso il Tribunale militare permanente di Napoli:
«Non luogo a procedere contro Cesare Moretti di Voghera, sottotenente accusato di abuso di autorità per aver fatto fucilare...»; «Non luogo a procedere contro Felice Broglia di Voghera, accusato di abuso di autorità, per aver fatto fucilare...»; «Non luogo a procedere contro il capitano conte Branda Castiglione e il sergente Giuseppe Meschini, accusati di aver fucilato...»; «Non luogo a procedere contro Carlo Romagnoli di Pistoia, capitano dei bersaglieri accusato di furto e nefandezze varie...»; «Non luogo a procedere contro Matteo Aiuto di Palermo, accusato di aver ucciso a fucilate...»; «Non luogo a procedere contro Giuseppe Alessandro Tresoldi, luogotenente, Filippo Pehlinur e Luigi Martinelli, capitani, accusati di abuso di potere»; «Non luogo a procedere contro un drappello di sei carabinieri»;
«Non luogo a procedere contro Girolamo Colli, Giacinto Ventura, Alfonso Suppini, Paolo Galiani, Giuseppe Bologna...».
La certezza del diritto non si sa, ma la certezza del torto per il vinto e il morto era garantita.
Vincenzo Padula, prete, poeta, antiborbonico e liberale, in Antonello capobrigante calabrese, scrisse: «Il Brigantaggio è un gran male ma male più grande è la sua repressione. Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l’immoralità dei mezzi, onde quella caccia deve governarsi per necessità, ha corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, e anche i più lontani congiunti, e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine ora di chi comanda, ora di chi esegue gli arresti.
E delle violenze non parlo» (e se non erano queste, quali?).
Più o meno come “le donne di conforto” coreane rastrellate dai giapponesi, quando invasero quel Paese. E questo, in una società in cui poteva bastare uno sguardo mal inteso a una donna, perché il coltello riportasse ordine e senso dell’onore («più di 300 giovanette popolavano ormai i postriboli perché cacciate» dall’Albergo dei poveri di Napoli, scriveva «Il Popolo d’Italia», nel 1862.
Arrivati i civilizzatori «era stata rubata la metà della rendita», riducendo quel meraviglioso istituto benefico in un «miserevole stato». Non solo: «Per ordine del governo le più avvenenti giovanette alunne del Real Albergo dei poveri furono condannate a esibire il proprio ritratto in fotografia con la macchina appositamente introdotta in quell'ospizio col doversi poi spedire quei "ritratti" a Torino, non Arcore.
Testo liberamente tratto da "Carnefici" di Pino Aprile, pagg. 131-132
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