sabato 11 luglio 2020

Un crimine possibile

Tutto questo è un crimine di quelli che cambiano il corso della storia. «Un crimine possibile solo se perpetrato da uno Stato che, in quanto sovrano, si erige a fonte del diritto.»
Il Piemonte violò accordi, leggi, trattati e persino ogni limite di decenza e umanità, in nome di un progetto politico-economico, di cui tanti videro e vissero (e ci fu chi ne morì) solo l'aspetto ideale; ed è quello che ci viene narrato; ma Torino dovette farlo soprattutto per una necessità assoluta (il Regno di Sardegna era ormai in fallimento, come fu detto anche in Parlamento, e in pochi mesi non avrebbe avuto soldi per pagare dipendenti pubblici e soldati, dimostra Nicola Zitara, in L'invenzione del Mezzogiorno). Ma questo non sarebbe bastato, se non si fosse presentata un’opportunità come ne capitano poche nella storia: l’interesse di molti e potenti a distruggere un Paese e consegnarlo a un altro meno ostile a certi giochi. Non intendo giustificare nulla, soltanto ricordare che le regole servono a mantenere le cose come stanno o, al più, tracciare i confini della loro evoluzione; per cambiarle, si possono percorrere solo due vie:
1) sostituire le regole, d’accordo con quanti dovranno riconoscersi in quelle e rispettarle;
2) calpestarle, per imporre ad altri le proprie (diciamo che puoi riunire l'Europa sotto una croce uncinata e lo stivale del fùhrer o in un euro molto tedesco, però frutto di accordi inter-europei, che una diversa politica può raddrizzare: la politica è l’arte del possibile miglior compromesso e le circostanze cambiano, offrendo le occasioni che la guerra non dà).
Ma nel 1860 avevano fretta e anche molta disistima per quelli con cui, a chiacchiere, dicevano di volersi unire per far un Paese («Ci disprezzano», scrisse Gaetano Salvemini a Giustino Fortunato: ed erano due unitaristi convinti; il secondo ne fu una sorta di apostolo, poi ferocemente deluso). Il Piemonte impose se stesso, le sue armi, la sua libertà chiudendo giornali, riempendo le carceri, deportando e fucilando, impose le sue tasse, le leggi e persino i suoi impiegati e le sue balie negli orfanotrofi di Napoli, poi disse che gliel’avevano chiesto gli italiani. E quelli che cercarono di smentire o opporsi fecero una brutta fine. Se il progetto fosse fallito (e ci fu il momento in cui parve che le truppe d’invasione non potessero reggere la risposta armata degli aggrediti, mentre la diplomazia sabauda era in gravi difficoltà per le proteste europee contro gli eccidi al Sud), del Piemonte forse sarebbero rimasti gli stracci, e oggi discuteremmo tanto del tragico tentativo che insanguinò l’Italia e della prepotenza subalpina, dei suoi accordi con i protettori stranieri, della corruzione con cui fece marcire all’interno un Regno amico, dei traditori di ieri (tecnicamente tali, pur se per un diverso ideale) non più patrioti di poi, dell'inferno della storia in cui tutto questo sarebbe finito... Ma, soprattutto, parleremmo delle stragi, delle vittime di un’azione violenta per cambiare le cose, e fallita per la sua violenza. Questo studieremmo a scuola. La glorificazione dei vincitori ha negato quel dolore dei vinti che, fosse andata diversamente, sarebbe la colpa storica di chi pensò che, per fare l’Italia, bisognava sottometterla (coerente con quanto Vittorio Emanuele II disse all’ambasciatore austriaco: «Ci sono due soli modi per governare gli italiani: con le baionette o con la corruzione»).
Testo liberamente estrapolato da
Pino Aprile
, "carnefici", pagg. 26-27-28.

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