sabato 25 luglio 2020

La donna come "cosa" e premio al vincitore, il furto della nostra dignità e la connivenza dei "galantuomini" con i "liberatori"


 L
e civiltà hanno compiuto grandi rivoluzioni, in tutto il mondo; i diritti vengono riconosciuti a tutti, almeno nominalmente (altra faccenda è che lo siano di fatto), indipendentemente da etnia, religione e sesso; ma quando si vuole disgregare un popolo, si ricorre sempre allo stesso sistema: si calpesta il suo diritto a decidere quando e con chi fare i figli, si «usano le sue donne», distruggendo (per il piacere e il piacere del potere) norme e liturgie su cui si formano i diritti e i doveri che governano lo scambio sessuale, e in base ai quali nascono figli, famiglie e società. Nel rispetto di quei codici, un maschio diventa uomo, conquistando l’accesso socialmente riconosciuto alla femmina; che, nel rispetto degli stessi codici, è riconosciuta donna e signora, padrona di disporre di se stessa, e non donna-cosa. Usarla, per «saziare la libidine ora di chi comanda, ora di chi esegue gli arresti», è negare a quella comunità i fondamenti per esistere come vuole e consentirle di poter ancora essere tale, dovendo invece sottostare a norme e voleri di altri, quindi in stato di subordinazione (era lo scopo degli stupri etnici nella guerra dei Balcani). Se il paragone vi pare esagerato, vi pregherei di riconsiderarlo, dopo aver immaginato che la stessa cosa accada ora alle vostre figlie, mamme, mogli e sorelle. E voi, ridotti all’impotenza, chiedendovi se lì si fermeranno o se, per cancellare le tracce, uccideranno tutto il resto della famiglia e, quando avranno finito, anche la violentata, come fecero i marines in Iraq. 

Eppure, furono i deputati meridionali, da Massari a Pica a Nisco e molti altri, appartenenti quasi esclusivamente alla classe di proprietari e arraffoni che si stava arricchendo con la nuova situazione, a proporre e far legalizzare i più feroci e infami metodi per sopprimere quella che avevano interesse a spacciare come ostilità al progetto unitario, ma che in gran parte era rivolta e vendetta per i furti impuniti. E se il governo di Torino era costretto a richiamare dal Sud i più sanguinari ufficiali, per le proteste del mondo civile, possidenti meridionali e intellettuali di complemento ne invocavano il ritorno. Un circolo vizioso assecondato dall’occupante che, così, si procurava l'appoggio politico forte e complice che ne giustificava presenza e azione. Il passaggio di potere e risorse consentiva alla classe dirigente che così andava formandosi in loco (subalterna e ricattabile, quindi: coloniale) di creare una base sempre più larga di clientele a cui distribuire le briciole del bottino e con cui consolidarsi e grazie a cui essere legittimate, sia pure a posteriori, spacciando l’altrui dipendenza per consenso.

Un meccanismo che resiste ancora oggi: i “clienti” e i partiti nord-centrici forniscono una caricatura di democrazia con un sistema di voto in larga parte controllato (spesso dalla mafia, come struttura di servizio); il dirigente locale così fatto votare, in realtà nominato, legittima con la sua presenza le discriminazioni a danno del Sud (le colpe «della classe dirigente locale»...) e salva con la sua complicità, la propria condizione privilegiata («Fummo noi, classe culta e benestante, che volemmo l’Italia una e via mandammo il Borbone», ricorda, uno dei più attivi e convinti unitaristi, il cosentino Vincenzo Padula, il 10 ottobre 1864, sul suo giornale «Il Bruzio», ai «culti e benestanti» che si lamentavano di come andavano le cose).


Testo tratto da "CARNEFICI" di Pino Aprile, pagg.133-134 - ad eccezione del titolo.

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