sabato 18 luglio 2020

LE NOSTRE PRIGIONI


 (libere estrapolazioni tratte da:

" E chi non vuole la nostra libertà, in Galera), capitolo quinto de i "CARNEFICI", di Pino Aprile.

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La storia sembra una sequenza di fatti, ma è un confronto fra narrazioni di fatti: quali e come. Quante persone vennero incarcerate dai piemontesi, al Sud? Quali erano le condizioni della loro detenzione? Quanto tempo restavano in galera? Per quali reati? Quanti morirono per maltrattamenti ed epidemie? Quanti di loro avevano almeno una condanna, purchessia, o solo un’idea della ragione per la quale erano stati imprigionati? Tutte domande senza risposta definitiva: in un secolo e mezzo, nessuno si è preso la briga di fare tali ricerche, in modo sistematico, esaustivo (salvo lodevolissime indagini condotte perlopiù da studiosi locali); soltanto, fra atti parlamentari, rapporti prefettizi o militari, censimenti occasionali o studi che miravano ad altro (come, nel 1866, Prigioni e prigionieri nel Regno d’Italia, del parlamentare Federico Bellazzi), affiorano dettagli spaventosi di un tutto ignoto: nella sola Agrigento (denunciò Crispi), in un mese, trentaduemila detenuti (ben più di metà dell’intera popolazione carceraria annua d’Italia, oggi); grotte, cripte e cimiteri usati come prigioni, non essendoci più altri luoghi in cui stipare le vittime di rastrellamenti. Strana libertà fu portata in nome dell’Italia unita: non bastarono le carceri a contenere le orde di liberati. A volerla buttare in macchietta, la cosa si presentava così: «Siamo venuti a liberarvi».

«Questa vostra libertà non mi piace.» «Allora ti mettiamo in galera»: in tante città del Sud persero pure la libertà di uscire di casa e non solo in quelle messe sotto assedio in Sicilia; nella Capitanata, per esempio, «in ogni città e villaggio, dalle 11 della sera alle 14 del mattino [quindi per ben quindici ore al giorno N.d.A.] è vietato percorrere vie o strade senza un permesso speciale dell’autorità militare». In Contro Garibaldi, Gennaro De Crescenzo ricorda che appena cinque giorni dopo l’ingresso del nizzardo nella capitale, «si poteva registrare una grave sommossa anti-unitaria nei pressi di Napoli, a Sant'Antimo: furono arrestate 138 persone per “attentati aventi per oggetto di cambiare il Governo”» (già. in Sicilia, sbarcato di fresco, Garibaldi emanava decreti di ogni genere «in virtù dei poteri conferiti» a lui: da chi? Ed esordiva scrivendo di essere stato «liberamente eletto Dittatore»: da chi, quando?). Se la cosa non fosse terribilmente seria, sarebbe una barzelletta, «se si pensa alla legittimità degli atti in questione», annota De Crescenzo. E già, perché venivano condannati come sovversivi funzionari, guardie e “rivoltosi”, i cittadini di «un governo legittimo ancora in piena attività»; e a farlo era un governo autoproclamatosi tale e «inventato da appena cinque giorni», dopo un’invasione armata.

Degli archivi di Stato di Napoli, si apprende cosa succede con l’arrivo di Garibaldi: nelle carceri della città, nei sette anni precedenti, non c'erano mai stati più di 1.560 detenuti; il 30 settembre 1860, tre settimane dopo la “liberazione”, sono già saliti a 18.472; dodici volte tanto. E di sicuro, in tre settimane, non moltiplicarono per dodici le celle in cui stiparli. Quindi, dove ce ne stava uno, se ne ammassarono (in media) una dozzina. Non fu che l’inizio. I reclusi, sotto la tirannia dei Borbone, potevano vedere i parenti anche due volte al giorno, poi furono finalmente liberi di incontrarli tre volte a settimana (non sempre, non ovunque). I dati sono ballerini e non c'è modo di sapere, con accettabile approssimazione, quanti fossero i detenuti. Forse era una missione impossibile, se si considera che quasi chiunque, purché n nome dei Savoia, dell'Unità, del tricolore, insomma contro i Borbone e lo Stato da abbattere, poteva incarcerare chiunque. Era cominciato un periodo di terrore e arbitrio che durerà molti anni.

Su «Il Bruzio», Vincenzo Padula, liberale calabrese, unitarista e filopiemontese, scriveva. «Le prigioni di Cosenza bastano appena a 500 prigionieri, e nondimeno al momento ne contengono 897. Manca a quegl’infelici l’aria da respirare, il luogo da muoversi, sono legati come a mazzi, come i dannati dell’inferno, gli uni agli altri sovrimposti come fasci di fieno», e che «il numero dei prigionieri invece di scemare monti ogni giorno», anche se siamo ormai nel 1864. «È un male che non si deplora nella sola Cosenza, ma in tutte le provincie, Salerno grida, Foggia ha cessato di gridare. Il tifo carcerario ha colpito spaventevolmente questa città.» Ed è «onesto che 452 infelici gridino da quattro anni, e inutilmente ogni giorno: Fateci giustizia?», perché vi sono «parecchi detenuti che non appartengono a nessuna autorità! Non al Prefetto, non al Generale, non al procuratore Regio: nessuno di costoro ne ha ordinato l’arresto, nessuno di costoro sa che quell’arresto sia stato eseguito». Cosenza aveva allora poco più di sedicimila abitanti; quasi cinquecento erano in carcere senza accusa, senza processo, da anni, e senza che nemmeno si sapesse chi ce li avesse messi e perché. La libertà che era stata portata era tale, che i fortunati finivano in galera “appartenendo” a qualche autorità, gli sfigati non sapendo a chi “appartenevano”. Di sicuro, non a se stessi. Così, «un tesoro di odio contro gli uomini, di vendetta contro la società. Di disprezzo verso la legge gli si accumula lentamente nel cuore». Un'idea della facilità con cui si finiva in prigione (un poveraccio che aveva regalato una giacca a un giovane che in seguito si diede alla macchia, fu incarcerato per complicità, riporta Mauro Mercuri in L'anello di zinco; quindi, se prestate una cravatta a un tizio che l’anno dopo uccide la moglie, finite in galera pure voi) e anche un’idea della quantità di reclusi, delle condizioni in cui erano detenuti, è possibile farsela grazie a Edoardo Spagnuolo, inesausto cacciatore di documenti su quel che accadde in Irpinia, all’arrivo dei liberatori con il tricolore. Aggiunge interesse il fatto che il suo studio riguarda un carcere-simbolo nella storia pre-risorgimentale (quella post-risorgimentale, invece, hanno evitato di dircela e Spagnuolo dimostra che i veri orrori furono dopo, non prima). Montefusco è un borgo nell’Avellinese, alto su un colle, da cui si domina un panorama sterminato, dalla Campania alla Puglia, dalla Lucania al Molise. Nel suo carcere vennero rinchiusi dai Borbone una cinquantina di detenuti politici, rei di aver tentato di abbattere la dinastia. Nel 1859 la pena fu commutata in esilio; alcuni di quei fuorusciti, da Torino, aiutarono a organizzare l'invasione sabauda.

Fra loro, nomi pesanti: il barone Carlo Poerio, che era stato scelto per essere trasformato in poeta-martire della repressione borbonica, «a quindici centesimi la linea», rivelò uno dei costruttori del mito, il formidabile giornalista lucano Ferdinando Petruccelli della Gattina (il guaio non previsto fu che Poerio finì per prendersi sul serio: «Si crede Poerio» scrisse Petruccelli, che aveva una penna al vetriolo);

*Grazie alle Memorie di Castromediano, Edoardo Spagnuolo ha potuto fare il raffronto fra cos'era il carcere di Montefusco sotto i Borbone e cosa divenne sotto i Savoia.

Un lavoro certosino, ammirevole, che ristabilisce il vero, circa il trattamento del prigioniero, nel Regno delle Due Sicilie (pur tenendo conto che quelli di Montefusco erano detenuti “speciali”), opposto alla ferocia e alla barbarie con cui, in nome della liberazione non si sa da cosa e da chi, si fece scempio di un’intera popolazione, privandola di ogni diritto, a partire dal diritto di unirsi, in condizioni di parità, agli altri italiani.

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