giovedì 16 luglio 2020

Le narrazioni politicamente corrette ed interessate

 

Un ricercatore della rivista (ora non più edita) «Due Sicilie», Umberto Pontone, scovò documenti interessanti nell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea: Bettino Ricasoli, capo del governo, nell'ottobre del 1861 scriveva al generale Enrico Cialdini, per disgrazia del Sud, luogotenente a Napoli, di «parecchie casse contenenti carte diplomatiche importantissime», trovate a Gaeta, dopo la resa. E gli chiedeva che fossero «diligentemente suggellate e spedite a Torino», perché se ne facesse «un esame accurato». Per farne cosa? Lo si capisce meglio da un altro messaggio (28 ottobre) al successore di Cialdini, La Marmora, circa «carte di somma rilevanza politica» dell’ex ministero napoletano degli Esteri. «La consegna di queste all'Archivio generale potrebbe essere sommamente pericolosa», perché qualcuno potrebbe consultarle, mentre «il Governo del re il cui desiderio è di chiudere l’epoca delle dissensioni italiane, non può permettere che si getti un continuo pascolo alle recriminazioni retrospettive, mediante una pubblicità di cui egli solo può determinare l’opportunità e le forme.» In Indietro Savoia!, Lorenzo Del Boca ricostruisce le peregrinazioni, dal 1866 al 1913, di settantatré fascicoli sulle operazioni contro il Brigantaggio, che vengono spostati da Napoli, a Firenze, poi a Roma, dove sono finalmente catalogati, ma... «molti documenti furono distrutti nel “forno delle carte”».
Okay, okay, la faccio finita; vedo faccette annoiate... Però sono rimaste in sospeso un paio di cose: dai sabaudisti a oggi, molti fatti nuovi sono successi, il monopolio scricchiola, tanti storici, perlopiù giovani, specie ultimamente, e favoriti dalla quantità e dalla potenza dei moderni mezzi di comunicazione e ricerca, scorrono gli eventi del passato con occhi diversi. Ma l’onda dei sabaudisti resta alta. La spiegazione che ho riportato poco prima, del perché la storia vada manipolata a fin di bene, non è di un sabaudista dell’Ottocento, ma del professor Alessandro Barbero, anno 2013, in una sua intervista a «Storia in rete» (ma ci pensate che ai suoi studenti, durante le sue lezioni, o ai lettori dei suoi libri, tocca chiedersi, con gratitudine: «Cosa ci starà pilotando il prof, della verità, per fare di noi dei buoni italiani?».
Con Barbero ebbi un pubblico e civile confronto; poi volli avviare con lui una lunga, quasi estenuante per entrambi, conversazione per posta elettronica. Ognuno dei due si convinse che l’altro sbaglia, ma non è un disonesto, pur disapprovando argomenti e metodi; e che, comunque, era inutile continuare a opporsi le rispettive ragioni, perché non sarebbe servito a nulla. Tant'è che, dal momento che questi dialoghi avvenivano di notte, a un certo punto ci dicemmo: ma se ce ne andassimo a dormire?). La sua frase, che ho riportato prima senza dirvi di chi era, completa, suona così: «Le grandi narrazioni, ovvero la costruzione di racconti attorno a cui si rinsalda l’unità nazionale, sono tipiche dello Stato nazionale. Per noi lo sono stati Garibaldi e i Mille. Più o meno ogni Paese l’ha fatto: ha preso alcuni avvenimenti e ha deciso che erano fondanti. E poi nel raccontarlo nei libri di testo ha semplificato molto e ha scelto cosa mettere in evidenza.

Questo modo di raccontare la storia al popolo indiscutibilmente si è sempre adoperato. Ma erano tendenzialmente operazioni pilotate dagli storici stessi, che ritenevano di servire il Paese offrendo una narrazione della storia intorno alla quale raccogliersi tutti quanti. Erano narrazioni non divisive ma che cercavano di costruire un’identità comune».
Ma, per unire «nella memoria» (ir. una nuova di zecca, funzionale a un progetto politico altrui) al Sud si rende necessaria la cancellazione della memoria di sette secoli di una comunità, in molte cose estranea a quella che viene imposta.
Per questo non bisognava far sapere che i protagonisti della «storia intorno alla quale raccogliersi tutti quanti», raccontavano così la fraterna acquisizione del Sud: «non era possibile governare, se non incutendo terrore», secondo il generale Enrico Della Rocca, in Autobiografia di un veterano; e lui faceva fucilare, tanto, ma così tanto, che parve troppo persino ai suoi capi. Il terrorista in divisa cercò di aggirare l’ordine, ma alla fine fu costretto «a sospendere le fucilazioni e a trattenere prigionieri tutti gli arrestati. Le prigioni e le caserme rigurgitarono, il numero dei carcerati crebbe a dismisura».

Narrazioni di prima mano, ma divisive; quindi meglio non farle arrivare nei libri di storia, dove restano preferibili quelle un tantino sottrattive. Quindi, qual è l’operazione che dai primi sabaudisti a oggi si è compiuta e si compie?
Ridurre la nostra storia al raccontino del percorso di un popolo sparso che si riconosce in una dinastia, la cui missione è riunificare (e sul come, non solo nascosero stragi che manco i nazisti, ma per i tre anni peggiori, 1861-63, in cui scorse più sangue, forse, che in tutti gli altri messi insieme, arrivarono a far sparire pure le statistiche sulle esecuzioni capitali). Tutto quello che entra in questa griglia è accettabile, discutibile, argomento di rielaborazione da parte dei professionisti; è falso tutto quello che smentisce o non si adatta a tale griglia (si chiamano “frames”, cornici mentali).
«La storiografia italiana post-unitaria ha alterato la verità storica e ne è venuta fuori una storia assurda e irreale il cui unico attore è una sparuta, avida, egoista e servile classe dirigente» accusò Tommaso Pedìo, con Franco Molfese, il maggiore storico del Brigantaggio nel periodo risorgimentale, in Economia e società meridionale a metà dell’Ottocento.
Una costruzione facilitata dal fatto che il mondo procedeva a tappe forzate verso un tempo in cui il presente non sarebbe più stato il ponte fra passato e futuro, ma l’anello spezzato che interrompe il collegamento di causa ed effetto fra questo e quello. Una cosa ripetuta molte volte, diventa vera; il contrario disorienta, genera insicurezza e sospetto. Mettiamola così: se abbiamo potuto reggere alle cure di certi educatori, forse non ci avrebbe ucciso nemmeno sapere come stanno davvero le cose, pur nei limiti dell’umana, possibile approssimazione, perché non c’è dubbio che la verità non è mai raggiungibile del tutto e per sempre, ma nemmeno la menzogna resiste per sempre. Mi pare enorme, a questo punto, il vantaggio di avere non dico storici, ma pur solo divulgatori non professionisti che non sono obbligati a “cambiare” storie e personaggi, decidere quali avvenimenti siano “fondanti” e altri “divisivi” e, quindi, da scartare, né a dirigere “operazioni pilotate” per “raccontare la storia al popolo”, che appare come una sorta di gregge a cui il savio pastore debba selezionare cosa deve e cosa non deve sapere.-
Per il suo bene, chiaro.
Be’, c'è un altro modo: scommettendo sul fatto che il popolo sia molto più saggio e maturo, gli si dice tutto quel che si riesce a sapere. Nelle pagine che seguono, troverete una lunga lista di cose brutte che non vengono raccontate nei libri di storia. Ma che sono successe. Perché? Per recuperare, attraverso «il potere eversivo della verità ricordata» (La fabbrica del falso, Vladimiro Giacché), quella che Eduardo Galeano, a proposito delle vittime della dittatura in Uruguay, definisce: «La dignità della memoria, memoria della dignità». E chiedersi se tutto questo sia estraneo al fatto che oggi la percentuale delle importazioni del Sud dal Nord Italia sia otto volte maggiore (ma in alcuni periodi dello scorso secolo e mezzo è stata pure più alta) a quella di prima dell’Unità e che mentre prima dell’Unità 1’85 per cento delle esportazioni del Regno delle Due Sicilie era con gli Stati del Nord Europa e l'America, oggi il Sud non esiste, di fatto, più, in questo campo, né in molti altri.
Nel 1860, i dati su aziende industriali e numero di addetti «erano migliori al Sud che in qualsiasi altra parte della penisola», scrive John Anthony Davis, in Napoli e Napoleone.
L'Italia meridionale e le rivoluzioni italiane (1780-1860), citando l’ottimo studio, pochissimo pubblicizzato e presto scomparso dalle librerie, di Luigi De Rosa, La provincia subordinata. Ma quando il Regno delle Due Sicilie «cessò di esistere, il mito di un Sud immobile e immutabile tornò utile per giustificare l'inadeguatezza di una medicina che era stata già provata e che aveva già dimostrato le sue mancanze». 
Quel mito è comodo ancora oggi.  Ma funziona sempre meno, perché, sabaudisti o no, quando una cosa, nessuno te la vuole dire, la terra si crepa, si apre. E parla.

Testo liberamente estrapolato da, Carnefici, Pino Aprile, pagg. 71-72-73-74-75.

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