domenica 12 luglio 2020

IL MASSACRO NASCOSTO


La dimensione del massacro nascosto sotto il mito del Risorgimento è stata sempre contestata (su come si scrive la storia nel nostro Paese, basti dire che l’Istituto cui fu affidato tale incarico, nel Regno di Sardegna che poi divenne d’Italia, aveva il compito di impedire la consultazione dei documenti che potessero offuscare la dinastia sabauda; le carte scomode potevano essere distrutte, e l'elaborazione dei documenti avuti in consultazione era sottoposta a doppia censura durante e dopo la stesura dei testi in cui erano citati). Una traccia demografica dell’enormità del prezzo pagato dal Sud, in vite umane, emerge per la prima volta da uno studio del 2014, condotto dal dottor Delio Miotti, per la Svimez (l'associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno). La ricerca, che mirava a ben altre finalità, ha svelato che, nel 1867, la popolazione meridionale diminuì, invece di crescere. Succederà solo altre due volte, in un secolo e mezzo: dopo la Prima guerra mondiale, a causa dell'influenza “spagnola” (in realtà, portata in Europa da soldati statunitensi), la più grande pandemia della storia dell’umanità: cinquanta milioni di morti; e nel (anzi, “dal”) 2013, per l'ampiezza del saccheggio di risorse condotto, a danno del Sud, da una feroce serie di governi antimeridionali di centrodestra (a trazione leghista) e di centrosinistra (senza manco la scusa della trazione leghista), al punto che l'emigrazione dal Mezzogiorno riprese come negli anni Cinquanta del Novecento e i terroni smisero di fare figli (indice di natalità mai così basso).
Ma cosa succedeva negli anni sino al 1867, tanto da far addirittura diminuire la popolazione? Il Piemonte univa il Paese e ne sfoltiva parte della popolazione, al Sud, perché recalcitrante: o capivi che lo facevano per il tuo bene e cambiavi testa, o te la tagliavano, per il bene di tutti (di chi impugnava la mannaia, sicuro). E la tagliavano veramente, non per modo di dire («per comodità di trasporto», è spiegato in un rapporto militare) e magari la esponevano in paese, per educare i dubbiosi. Qual è la differenza con i boia dell’Isis, lo Stato islamico? Ma è ovvio: quelli dell’Isis sono selvaggi e dicono di essere patrioti; i piemontesi al Sud erano civili e patrioti: non si può fare di tutte le decapitazioni un fascio!
Mai la popolazione era diminuita, almeno per tutto il secolo precedente, senza guerre o epidemie (nella prima metà dell'Ottocento, come si vede dallo studio di Idamaria Fusco, in Il Mezzogiorno prima dell'Unità, nel 1817 e nel 1837 ci furono dei crolli. Nella media, comunque, la professoressa Fusco dimostra che prima dell’Unità il Sud cresceva più del resto d’Italia; dopo, meno). Questi sono i numeri di un genocidio: invece di continuare a crescere di decine di migliaia, decrescere di cifre analoghe. E non ne parlo per cambiare il passato (operazione stupida e inutile, se non a fini di potere), ma perché siano riconosciuti. La sociologia spiega che le società nascono da un crimine commesso in comune, una colpa condivisa. L'Italia, quale coscienza diffusa di un Paese unito, non è mai nata. Se ha una possibilità, è quella di rinascere sulla condivisione del racconto dei crimini da cui ebbe origine e i cui autori sono morti. Ci sono figli che nascono da
uno stupro; non saranno liberi nascondendolo a se stessi, ma sapendolo, per poter acquisire la coscienza di non avere la colpa dello stupratore, né l'umiliazione della stuprata.
Dal 1765 all’unificazione forzata d’Italia, nel Regno delle Due Sicilie, il numero dei meridionali era cresciuto sempre; gli ultimi cinquant'anni, di quasi 50.000 all’anno e nessuno era mai emigrato: c’era povertà, come nel Nord e nel resto d’Europa, ma non al punto da indurre la gente ad andarsene (come avveniva per le regioni settentrionali, dal Friuli al Piemonte), né a smettere di fare figli, che restavano lì e non morivano di fame, se la popolazione continuava ad aumentare. Poi arrivano i fratelli d’Italia e «i progressi della morte sono immensi», come diceva nel Parlamento di Torino il deputato Angelo Brofferio, anni prima, a proposito dell’incredibile numero di condanne a morte eseguite in pochi anni nel regno sabaudo. Al Sud fecero ancora meglio se, in soli sei anni, la conta dei morti superò quella dei nati, nel 1867 e (di poco) nel 1868 (ricerca Svimez, su dati Istat, Istituto nazionale di statistica).
Nel 1862 (dopo quasi due anni di guerra di annessione), l'incremento della popolazione, specie maschile, era già in frenata, ma ancora di quasi 6.000 unità maggiore a Sud, rispetto al Nord (19.000 a 13.000); dopo appena un anno, il rapporto si capovolse (20.000 a Nord, meno di 15.000 a Sud). Nel 1867, la differenza salì a 30.000 (maschi: più 10.000 a Nord, meno 20.000 a Sud). Ci vollero dieci anni, perché le cifre tornassero quasi pari, nei primi anni Settanta dell'Ottocento, in coincidenza con la dichiarata fine della guerra al Brigantaggio. Ai vinti in armi, dopo la sconfitta
resta la fuga: fallita la risposta militare all’invasione, lo spopolamento continuò, con l'emigrazione: per la prima volta nella loro storia, i meridionali abbandonarono la propria terra, a milioni. Ma sulla “fine del Brigantaggio” forse bisognerà rivedere i conti, perché è dimostrabile che ancora nel 1872, «come si evince dal Manuale del funzionario di sicurezza pubblica e di polizia giudiziaria, per le “statistiche mensili” sul Brigantaggio, si chiedeva di indicare, secondo le istruzioni, i dati sui movimenti di briganti e manutengoli, la denominazione delle bande, i nomi dei briganti, i circondari e i mandamenti frequentati da ciascuna banda, i nomi degli evasi dalle carceri, dei manutengoli denunziati, ammoniti o arrestati...» (tratto da Noi, i neoborbonici, di Gennaro De Crescenzo). E si legge in I/ Distretto Militare di Perugia (edito nel 2006), del generale Massimo Iacopi, che ne fu comandante, che «con la eliminazione della banda di Sante Graci detto “Zigo” nell’eugubino (1869), sorpreso in una casa colonica, con altri 15 briganti, da una pattuglia di Reali Carabinieri del maresciallo Bucchio e la successiva distruzione di quella di Tiburzi nell’orvietano (1877), ha inizio la fine del banditismo in Umbria». L'inizio della fine, nel 1877!
E la cattura di Zigo avviene nel corso di una battuta dell’esercito, per catturare renitenti alla leva (ci torneremo su), e ne prendono centinaia al giorno. Siamo a quasi dieci anni dall’arrivo dei piemontesi e in Umbria, che certo non fu fra le regioni in cui maggiormente si manifestò la resistenza armata all’invasione. Ed è lo stesso generale Iacopi, onestamente e correttamente, a far notare che il Brigantaggio, nonostante la diffusa protesta per «l'eccessiva pressione fiscale sulle classi più deboli» e l’introduzione «dopo quattrocento anni circa, della coscrizione obbligatoria», «non avrebbe avuto alcuna possibilità di attecchire e proliferare», se non fosse stato «omogeneo» con l’ambiente. Insomma: la geografia gli deve essere nota e favorevole (boschi, monti, poche vie di comunicazione), la popolazione pure. Il Brigantaggio finisce in Umbria, quando «a Coccorano di Valfabbrica, nei pressi di Perugia, viene catturato in una stalla, da una pattuglia di 14 carabinieri, quello che per la cronaca è forse l’ultimo dei briganti in... “servizio permanente effettivo” della regione». È il marzo del 1901: sono passati quarant’anni dall’arrivo dei piemontesi. E come potrebbe essere stato debellato, nei primi anni Settanta dell’Ottocento il Brigantaggio, se addirittura il «Times», nel 1872, quando il fenomeno sarebbe stato già eliminato, pubblica un preoccupato intervento sulla sua recrudescenza nel Mezzogiorno? E si temeva una nuova rivolta in Sicilia, come quella del 1866, quando i ribelli riconquistarono Palermo e gran parte dell’isola, sconfiggendo militarmente i reparti dell’esercito sabaudo. È un altro capitolo forse chiuso con un po’ di precipitazione e da rivedere...
Testo liberamente estrapolato da Pino Aprile, "CARNEFICI", pagg. 28,29,30,31.

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